Testi e immagini di Toti Scialoja, il poeta del senso perso

di Eloisa Morra

Un episodio poco noto e curioso della carriera di Toti Scialoja insegnante riguarda la sua esperienza triennale come maestro di disegno e pittura

“Topo topo senza scopo, dopo te cosa vien dopo?”. La prima volta che ascoltai i versi di Toti Scialoja avevo vent’anni ed ero in preda alla crisi tipica di parecchi studiosi in erba, che a una buona dose di self-doubt non fa mancare un robusto scetticismo verso la propria disciplina. Pur iscritta a storia dell’arte mi sentivo a casa alle lezioni di Carlo Ginzburg e Lina Bolzoni, e avevo capito che a interessarmi erano non tanto (o non solo) le attribuzioni, ma i rapporti tra testi let-terari e immagini all’interno della tradizione italiana. Quando un’amica mi recitò questi versi divenni immediatamente curiosa: cosa si nascondeva dietro la giocosa malinconia che lievitava come un pulviscolo dalle sillabe?

L’edizione di La zanzara senza zeta pescata su Maremagnum mi fece mettere da parte il progetto che avevo in programma per la tesi e decidere di colpo tre cose: sarei diventata un’italianista, avrei studiato i rapporti testo-immagine, e mi sarei concentrata proprio su quel caso di doppio talento apparentemente bizzarro. Scialoja non si era infatti limitato a scrivere. A costellare i versi c’erano meravigliose illustrazioni a tutta pagina che, oltre a dargli peso e forma, illuminavano di significati inattesi quel mondo fatto di pesci “rosi dalle nevrosi”, squali e cammelli che sembravano prendere nel miglior modo possibile — con filosofia — momenti di angoscia esistenziale non lontani da quelli attraversati da noi tutti, autore incluso.

Quando inizia a inviare al nipote James Demby le prime poesie illustrate, pubblicate solo anni dopo, Toti Scialoja ha quasi cinquant’anni ed è un artista dalle molte vite. Nato nel 1914 in una famiglia di giuristi ed accademici, era arrivato ad essere quel che era dopo un percorso accidentato, fatto di ripensamenti, incontri fortunati e qualche cocente delusione. La prima, e più pesante, era arrivata a vent’anni, quando un noto poeta ne aveva stroncato i versi inediti.

Scialoja aveva reagito come ogni giovane sensibile e intelligente: “Sono negato, smetto”. A quella vocazione strozzata era seguito un momento di crisi in cui una seconda, la pittorica, aveva avuto tempo di mettere radici, crescere, fiorire. La prima personale — una serie di gouaches esposte alla Galleria Genova, nel ’40 — gli apre, oltre a quelle dell’arte, le porte del mondo degli scrittori: il tocco turbinoso delle sue pennellate seduce immediatamente Moravia e non manca di impressionare Gadda, che iscriverà un suo dipinto giovanile nelle pagine del Pasticciaccio.

Lasciati alle spalle gli esordi neoespressionisti, Scialoja diviene uno dei più noti maestri dell’astrattismo: ma a un decennio creativamente inarrivabile come i suoi anni Cinquanta era se-guito un periodo di stallo da cui nemmeno la critica d’arte, che pure aveva praticato tanto e bene, sembrava farlo riemergere. Vie d’uscita sembrano non essercene fino al ’63, quando sulle tele scandite dalle “impronte” iniziano a far capolino corde, merletti, ritagli di giornali strappati alla corrività del quotidiano per trovare un senso più profondo all’interno del tessuto pittorico.

Era, più o meno consciamente, la medesima operazione che l’artista stava portando avanti con i versi del senso perso, non a caso definiti “paesaggi di parole”. Sono poesie che non rappresenta-no, piuttosto presentano l’oggetto ai nostri occhi (e orecchie) di lettori come fosse la prima volta. Il materiale di base è offerto dalle sillabe, e le storie nascono dalla possibilità date dalle parole, che sembrano susseguirsi con la stessa semplicità con cui le perle si allineano in una collana: “Un cammello/ lungo il Corso/ camminava lemme lemme, e pensava/ “Avrà rimorso chi mi scrive co con due emme?”.

Calvino avrebbe presentato i versi come “primo vero esempio italiano di una tradizione che fa riferimento al gioco del nonsense e del limerick”, ma un paragone con il Book of Nonsense di Edward Lear — altro esempio luminoso di poeta-pittore — ne evidenzia immediatamente la di-versa natura. A differenza degli strambi ometti di Lear gli animali scialojani non annegano nel nonsense, ma danzando tra le parole recuperano il senso come per magia: “Quando un tetro dromedario/ tetraedro/ un disse: Diamine!/ Ho davanti una piramide”. L’accoglienza ai libri di versi illustrati, pubblicati da Bompiani (Amato topino caro, 1971) e poi da Einaudi e Cooperativa scrittori (La zanzara senza zeta, 1974; Ghiro ghiro tonto, 1979), era stata entusiasta e limitante al tempo stesso. Per molti l’autore di quei libri rimase essenzialmente un pittore che si divertiva a scrivere poesie nel tempo libero, come avrebbe ricordato con bonaria rassegnazione Giovanni Raboni, l’interprete più percettivo e acuto che la poesia di Scialoja abbia mai avuto.

Che non si trattasse di un puro divertissement lo dimostra un’analisi di parole e immagini, com-provata dal ritrovamento di preziosi documenti d’archivio. Al progressivo raffinamento dei testi, che da filastrocche divengono lucenti talismani contro il mal de vivre, Scialoja fa corrispondere un lavoro di fino sulle immagini. Esplorando la sua biblioteca, conservata intatta nella casa-museo di Santa Maria in Monticelli, è emerso un interessante e vasto ventaglio di fonti iconografiche, pari o forse superiore al versante letterario. A guardarli bene, i nonsense della Zanzara sembrano una torta millefoglie: c’è un primo, superficiale strato, che soddisfa immediatamente l’appetito del lettore per l’accostarsi perfetto delle sonorità; c’è poi un secondo strato, ovvero la serie di riferimenti letterari, espliciti e impliciti; il terzo strato, il più profondo, è apprezzabile nel connubio tra testo e immagini, dense di riferimenti alla tradizione vittoriana del nonsense ma an-che a quella del libro romantico à la Grandville. “Non amo particolarmente i bambini, più che altro ho cercato di riportare in vita la mia infanzia”, così il poeta-pittore avrebbe dichiarato in un’intervista; ed è proprio in quel voler tornare a scrivere e disegnare insieme, senza curarsi delle attese del pubblico e delle distinzioni di genere — tra riferimenti letterari alti e bassi, tra libro d’artista e libro illustrato — che risiede la forza dei libri di Scialoja.