L’autore come contributo ci ha inviato l’ultimo capitolo
del suo saggio sui nonsense e i relativi disegni di Toti.

Toti, Grandville e gli animali vestiti

di Alessandro Giammei

Tra i numerosi illustratori, per bambini e non, presenti nella sua biblioteca, Scialoja ha scelto forse il più inquietante, il più scandagliato da filosofi e critici, il più moderno e demodé per condurre buona parte dei suoi animaletti, dai pochi tratti di penna delle invenzioni per il nipotino, agli eleganti arabeschi sulle pagine di libri che hanno incantato l’infanzia di molti.

Grandville è certo un modello all’altezza per un illustre astrattista attempato che, dopo viaggi ed esposizioni a New York e Parigi, letture e seminari di filosofia, una giovinezza nella più vivace società artistica e letteraria e un malinconico passato da prosatore lirico, deve ottemperare a contratti editoriali siglati in amicizia con Emanuela Bompiani e Italo Calvino. Ma da vero nonsensical, da vero blasé, da vero amico eterno dei topi, Scialoja non sembra voler raccogliere l’eredità grave del geniale incisore che impressionò Baudelaire: piuttosto gli ruba qualche idea, si lascia ispirare, cita i suoi animali vestiti come cita Eliot e Villon (a memoria, con qualche inciampo risolto agilmente in un arabesque formale) e, alla fine, ne fa una parodia postmoderna, forse indovinando il modo di catturarne lo spirito in un’età in cui più nessuno ha memoria delle sue, un tempo famosissime, immagini in bianco e nero.

A parte un album dal titolo À bon chat, bon rat, da cui ha forse tratto solo uno spunto, Toti possedeva una splendida edizione originale di Scénes de la vie privée et publique des animaux, in cui le fantasie unheimlich di Grandville si sbizzarriscono sui pretesti di Balzac, Charles Nodier, George Sand e altri. Satira sociale, vicende borghesi, oggetti e abiti consueti degli scenari francesi indossati e portati da animali inquietantemente a loro agio nell’antropomorfismo che li drizza e li inurba senza favola (sono corvi chirurghi, gatti altolocati, alligatori plutocrati, galli à la page e così via), tutto trasfigura nella poesia illustrata di Scialoja, che mantiene salda la presa sull’infanzia senza silenziare la cultura – non solo visuale – che lo distingue da sempre.
 L’inconcludenza di un confronto tra le immagini ottocentesche con le lettere originali situa con ogni probabilità l’influenza di Grandville ben oltre il ’61; forse bisogna attribuirvi anche il velo di satira della società che si posa sulla sua poesia dopo i primi libri. È come se l’autore traslasse lo zoo parigino nel secondo dopoguerra, spogliandolo di gravità e nequizie ma non rinunciando ad attribuirgli piccole nevrosi, problemi d’alcool, cura per il trucco e l’abbigliamento e uso di farmaci come condimento al contegno buffamente dignitoso tipico dei protagonisti del nonsense. È una forma di traduzione, anche più chiara nell’elaborazione grafica. Ma le forme di debito con Grandville sono diverse, come ho accennato, ed è meglio partire dall’inizio.
 Nel dettaglio in alto a sinistra (fig. 18) vediamo il cappellino in testa a un assonnato topino, che si affaccia dalla finestra.
Un prestito altrettanto minimo, notato già da Paola Pallottino nel 1991, è quello chiesto alla litografia di un lupo solitario (fig. 20) che offre la sua postura malinconica alla cornacchia di leopardiana memoria (fig. 19).

fig.18

fig.19

fig.20

La cornacchia sonnecchia nella nicchia
della torraccia vecchia. E non si impiccia.

La ripresa della posizione anatomica mi pare indiscutibile, ma lo spunto è relativo visto che neanche si tratta dello stesso animale: il muso del lupo è tramutato nel becco dell’uccello e del primo si conserva la giacca col bavero e nient’altro.
Ben altro il destino di un orso di Amato topino caro, che mostra bene una modalità di passaggio dalla lettera al volume passando da Grandville. Rivediamo il primissimo disegno, non per la stampa.
I versi, come al solito, restano identici nel libro – tranne che per un punto sostituito da una virgola – ma l’orso qui proposto, vestito da cavaliere o da gendarme con una pipa in mano e lo sguardo aggressivo, non troverà mai spazio nei libri per bambini. Al suo posto, nell’opera prima dello Scialoja nonsensical, c’è un animale completamente diverso ( fig.22).
Il cambio di stile che è intervenuto è tutto attribuibile al modello francese, di cui stavolta l’autore propone un calco esatto, isolando una figura all’interno di una litografia ( fig. 23) che illustra tutt’altra scena.

fig.22

fig.23

Scialoja cambia il minimo indispensabile per mantenere la coerenza testuale: elimina il cappello e il contesto, lasciando lo scontroso orso da solo sulla pagina, distantissimo da quello aggressivo e ghignante che aveva ideato all’inizio. Lo stesso sembra avvenire con «l’istrice, attrice illustre», di cui non abbiamo una versione originaria tra le lettere ma che sembra anche lei disegnata ricalcando un’immagine di Grandville.
La situazione, a uno sguardo più attento, è diversa. La scena grandvilliana (fig.24) ha luogo su un palcoscenico: l’istrice sta recitando assieme a un cane con numerosi spettatori animali affacciati dai palchetti; c’è perfino un rettile che sbuca dal proscenio per suggerirle le battute. La poesia che accompagna l’illustrazione di Scialoja recita:

fig.24

fig.25

L’istrice, attrice illustre,
recita parti tristi
con occhi lustri lustri
inchiostrati di bistri.

Entrambe le protagoniste sono dunque intente a recitare, e la litografia di Grandville potrebbe addirittura aver ispirato la poesia stessa, che è quasi certamente parte – vista la mancanza di riscontri nei manoscritti illustrati degli anni Sessanta inviati a James Demby – della produzione originale degli anni Settanta. Il personaggio è anche rielaborato ( fig.25), il tratto è reso più naïf, si aggiunge il trucco – richiesto dal secondo distico della quartina – e un fazzoletto – chiamato in causa dalle «parti tristi» – che smuove anche le mani del soggetto. Siamo già più vicini a una traduzione, analogamente a quanto avviene nella seguente poesia.

fig.26

fig.27

Siede sola in una sala
dove regna la penombra
una savia salamandra,
sogna il sole e si consola
infilando chicchi d’ambra.

La posizione delle zampe è identica ma, nella versione di Scialoja, la vicenda nonsensical impedisce un’adesione totale al modello ( fig. 26 e 27): la salamandra, invece di stuzzicarsi i denti col bastoncino, vi infila gli incongrui «chicchi d’ambra» della poesia sortendo l’effetto comico e stringente di cui abbiamo parlato all’inizio del capitolo. In sostanza rimane chiaro che quello rappresentato da Grandville è un ragazzo animalizzato e preso in giro, tramutato in rettile perché sta sempre al sole: quella di Scialoja è invece proprio una salamandra, evidentemente sola e forse davvero dotata di saggezza. Potremmo anche non credere all’aggettivo, «savia», ma perché diffidare di una descrizione che, per il resto, è puntualissima: l’animaletto, per quanto improbabile sia, infila effettivamente le sue perline nella piccola stecca che si ritrova per le mani. Passiamo allora a casi di dialogo più vivace con la fonte.
Di squali, in tutti i versi nonsense di Scialoja, ce ne sono tre, tutti in Una vespa!: uno è «nella vasca», un altro «in squadra» e «in scooter», mentre il terzo, soddisfacendo l’aspettativa fonetica più ovvia, «a scuola», dove naturalmente coincide con uno dei più classici errori ortografici in cui si incappa da bambini:

fig.28

fig.29

Se lo squalo va alla scuola
c’è un maestro che si sgola.

Significativamente il distico è l’unico illustrato dei tre (fig. 28): uno squalo piangente, evidentemente ripetente viste le proporzioni col piccolo banco, che rovescia il calamaio spargendo inchiostro ovunque. Altrettanto significativamente la fonte ( fig. 29) rappresenta tutto l’opposto: uno squalo dottore, dalle pinne evidentemente abili, che discute in camice con gli avventori della clinica.

Lo squalo medico, intellettualmente di successo e intento a spiegare la situazione di un paziente foca a un piccolo capannello di altri pesci, volatili e insetti, è esattamente agli antipodi dello squalo bocciato che fa sgolare il maestro. Il debito visuale d’altronde è certo, lo confermano l’uso analogo delle pinne-mani, l’assenza parallela di particolari riconoscibili come la pinna dorsale tipica, la forma peculiare della coda, la scelta di rappresentare il predatore eretto senza deformare le caratteristiche anatomiche di un animale molto ‘orizzontale’ (in particolare la posizione scomoda di occhi e bocca). Eppure l’adesione al modello è solo formale: Scialoja ingaggia un piccolo scontro ironico con esso, sfruttandone le soluzioni grafiche per sortire un effetto visuale opposto: se lo squalo di Grandville risulta autoritario e perfettamente a suo agio nell’innaturale posa eretta che lo rende così inquietantemente umano, quello del nonsense è goffo e imbarazzato, sembra anchilosato, muove a compassione.
Avviene qualcosa di simile quando Toti ricorre all’altra pubblicazione grandvilliana di grande pregio che possedeva, il citato album À bon chat, bon rat, forse acquistato a Parigi. Un particolare delle prime pagine ( fig. 30) rimanda all’illustrazione del nonsense ( fig.31) sul batrace.

fig.30

fig.31

Il rospo è un batrace
del tutto incapace
di usare la brace
per cuocer le mosche
e, calde sul desco,
succhiarne le lische.

I debiti formali sono ancora una volta chiari: la posizione delle piccole braccia e delle mani, il mantello, la posizione del corpo proteso ,la somiglianza della padella e della spiga. La padella stessa non si spiega se non col parallelo nella litografia: la poesia parla infatti di brace, non di frittura. L’elaborazione di Scialoja tuttavia non è neutra. La ranocchia di Grandville si sta inginocchiando, assieme alle sue compagne, di fronte a un grande uccello di lago che domina sul consesso di anfibi. La si direbbe porgere il rametto come una spada, tributando onore. Nel disegno degli anni Settanta invece il protagonista cerca di cuocersi un paio di mosche e resta evidentemente sbigottito vedendosele ogni volta volar via dalla padella, leggére come sono. La padella del rospo single, incapace a cucinarsi una modesta cena da batrace, aggiorna e parodizza l’oggetto impugnato dalla rana delle favole; così il mantello disegnato da Grandville diventa una sorta di trench, uno spolverino aperto da mezza stagione.
Ancora più evidente il sovvertimento del perturbante grandvilliano nella splendida scenetta (fig. 32 ) del gufo golfista di Una vespa!, che ricalca quello entomologo ( fig. 33 ) della fonte francese.
I due personaggi sono intenti a compiere azioni diversissime, sebbene entrambe caratterizzate dall’uso di un lungo strumento. Eppure non si può negare che si somiglino per anatomia del capo, inclinazione del corpo, calma e concentrazione nel fare quello che fanno. Siamo lontani dal calco identico dell’orso, e anche dalla rielaborazione minima dell’istrice: qui è come se il gelido gufo intento a cacciare insetti da infilzare con gli spilli – probabilmente per poi mangiarseli – avesse d’un tratto sollevato ancora di più il retino, tramutato in mazza, per caricare uno swing, trasformandosi in un elegante signore di mezza età che frequenta il club ogni domenica. Analogie di questo tipo, in cui pure il rapporto di filiazione è meno preciso, sono di certo le più interessanti: è in esse che Scialoja, con esiti e metodi diversi, riesce a tradurre i dignitosi protagonisti del grottesco zoomorfismo ottocentesco nel nonsenso di secondo Novecento italiano. Da borghesi che erano diventano ‘imborghesiti’, perdendo la cifra di critica sociale dell’originale in favore di una più svagata leggerezza amichevole. E così il gufo può dismettere la fascia d’onore per indossare un loden blu, andandosene in Africa a fare una partita

fig.32

fig.33

Giocando al golf
a Mazabuka
il gufo goffo
per fare buca
dà con la mazza
un colpo tal
che la pallina vola sul Golfo
di Mozambico e casca in mar
quando non casca nel Madagascar.

Il piccolo capolavoro di tale traduzione visiva è nella trasfigurazione del signor Voutur delle Scénes, disegnato da Grandville come un avvoltoio ricco e di cattivo carattere ( fig. 34 ), vestito di tutto punto con tuba e bastone da passeggio, collo di pelliccia e ghette.
Anche un rapace scialojano mette altrettanta paura, a giudicare dalla poesia che lo ritrae:

fig.34

fig.35

Ho un còndor per condomino
che fa l’uomo di mondo
simulando candor,
se lo incontro mi domino
ma cambio di color.

Ma come avere timore se il condor è lo stesso che appare nel disegno associato ai versi ( fig. 35)? Il cilindro di Voutur diventa un borsalino, il cappotto con collo d’ermellino un montone foderato di lana, il bastone da passeggio si assottiglia e alle scarpe spuntano due tacchetti per evitare la tallonite. Il condomino, pur avendo la faccia un po’ torva, saluta togliendosi il cappello mentre passa: fa davvero l’uomo di mondo, distinguendosi dal più nobile ma inquietante corrispettivo ottocentesco, immobile e poggiato con forza sul bastone.

Il miracolo di Scialoja resta la capacità di conservare l’immediatezza – complicatamente, come è proprio del nonsense – senza però resistere alle tentazioni di una vasta cultura, di un amore per la forma e per la tradizione, di una grande vocazione all’esperimento e all’avanguardia, di suggestioni che spaziano da Petrarca alle Expositions parigine della modernità. Di non rinunciare al proprio anomalo profilo, pagato negli anni con delusioni e solitudini riscattate dall’inesausta gioia dell’arte, pur inventando continuamente modi nuovi e a volte improbabili in cui declinarne le miste componenti.
È stato lui stesso a disegnare, con poche battute di macchina da scrivere, i rilassati spiriti in conflitto della sua inattesa vecchiaia da poeta. Il breve ritratto emotivo, da attempato Rimbaud o da Carroll italiano, compare alla fine di una risposta entusiasta a un poeta più giovane, a cui Toti propose «per incoraggiarla a parlare di sé, le dirò un po’ di me»:

Da vecchi non ci si permette più né di essere felici né infelici, dico individualmente. Si è calati in una angoscia così immensa che mette persino allegria. Nel territorio della non consolazione passano animali strani bizzarri variamente colorati.

1 - AVVERTENZA: Le poesie nonsense di Scialoja sono citate dall’edizione T. Scialoja, Versi del senso perso [1989], prefazione di P. Mauri [2006], rassegna critica di O. Bonifazi, Einaudi, Torino 2009. Si useranno le seguenti sigle, relative ai libri ivi raccolti, seguite dal numero di pagina nelle ed. cit.: AT per Amato topino caro (1961-1969, prima ed. 1971); VS per Una vespa! Che spavento (1969-1974, prima ed. 1975); ST per La stanza la stizza l’astuzia (1973-1976, prima ed. 1976); GT per Ghiro ghiro tonto, (1976- 1978, prima ed. 1979); MA per La mela di Amleto (1974-1980, prima ed. 1984); TL per Tre lievi levrieri (1971-1979, prima ed.1985).
2 - Edito da Oberthur à Rennes, a Parigi, nel 1968, è una raccolta delle immagini di Grandville per La Fontaine. Vi si accostano testi di autori vari.
3 - Lettera inedita di Toti Scialoja, da Roma, a Fabio Pusterla, a Lugano, del giugno 1986. La copia dattiloscritta da cui cito è conservata alla Fondazione Toti Scialoja, tra le pagine di Concessione all’inverno, regalato dall’autore a Scialoja.