L’ALBERO FRONDOSO DELLA LIBERTA’ CREATIVA

di Duccio Trombadori

Il vento dei liberi cromatismi soffiato da Mafai e Scipione entrò nell’animo più che sensibile di Toti Scialoja fino dalla metà degli anni Trenta, e si accomodò in quell’ansa spirituale accordandone in modo inseparabile la virtù espressiva. Toti è stato fin dal principio un delicato ed accuratissimo colorista apprensivo, e per ciò pittore intellettuale, che affidava all’ impaginato visivo l’ onere di trasferire emozioni dense di pensiero, forme significanti capaci di trascendere il naturale ordinando il magma delle fantasie evocate dal profondo. Sarebbe stato dunque fin dall’ origine il prototipo dell’ artista ‘fuori strada’, come lo chiamò Cesare Brandi nell’ immediato dopoguerra (1947), per la misura dell’ inquietudine esistenziale e per la parodia estetica di impronunciabili modalità espressive , dove lo stile e la maniera di vedere coincidono con un modo di essere e di interpretare.
‘Fuori strada’, egli fu. E puntuale testimone del suo tempo: estraneo alle semplificazioni narrative e ad ogni sviamento della ideologia, in nome della autonomia del manufatto artistico, quale contrassegno unificante del senso e del pensiero. Inutile dire che in questa peculiare e consapevole ricerca di purezza espressiva (non di purezza ‘formale’) accanto alle accensioni emotive della ‘scuola di Via Cavour’ si accompagnò la lezione più costruttiva di Morandi e del ‘colore di posizione’. Non a caso, in tutto il corso della vita di poeta e di artista, Scialoja è stato esempio di fiducia nella pittura e nella sua inesauribile ‘aseità’ (Brandi la chiamava ‘astanza’: il che, più o meno, coincide). Così egli fu sempre ‘interprete critico’ dell’ opera sua, fu il maestro di sé stesso, prima ancora di incontrare quella passione pedagogica che nel tempo lo avrebbe visto esercitare una straordinaria influenza su più generazioni dell’ arte italiana nel secondo dopoguerra.
Ho fatto conoscenza diretta e personale con Toti Scialoja in ritardo, nei primi anni Novanta, quando lo intervistai per la uscita di un libro di versi, che tanto mi colpì per la presenza di una parola immediata, fresca e ingenua, tale da trascinare l’animo in una atmosfera di scherzoso idillio e parafrasi dell’ esistenza quale bizzarra favola perenne. Di questo singolare dispositivo poetico –dove il semplice e l’immediato è maschera sintetica del complesso, del ragionato e del ‘profondo’- mi era parso di cogliere corrispondenza anche nella sua opera di pittore e tanto più quella simbiosi di parola e forma-colore suggeriva approfondimenti su tutto l’arco di una esperienza nutrita di sperimentazioni diverse ancora in pieno corso.
Mi è dispiaciuto anche per questo avere incontrato Toti Scialoja soltanto pochi anni prima della sua scomparsa, perché non ebbi il tempo di approfondire e attingere il frutto di quella meditata avventura estetica. Tanto più che la qualità dell’ opera aveva sempre fatto colpo ai miei occhi, a partire dai primi anni Sessanta: quando per la prima volta mi era apparsa la luminosa virtù delle intense soluzioni pittoriche sollecitate da stralunati e compiutissimi paesaggi che esaltavano il cromatismo calligrafico di Mafai in un ricamo di contrasti e traboccanti forme sghembe, ondulazioni volute di superficie vibratile che sfalda lo spazio e lo ricompone in trama di fugaci ma insopprimibili apparenze. Scialoja aveva un culto della forma come portato della emozione visiva ed inseguiva l’impeccabile persistere dell’attimo, dove senso e pensiero si danno la mano e si compenetrano musicalmente. In questa meditata e lirica passionalità consiste, credo, il segreto di uno stile che ha scandito il tempo della sua operosa vita di artista, avvicendata da tumultuose sperimentazioni e pentimenti repentini, sempre tuttavia fedeli alla sorgiva autonomia del motivo ispiratore.
Non è il caso di approfondire il giudizio sulle qualità di Scialoja come disegnatore, squisito distillatore di forme nate dalla linea che fa ombra e luce, al modo di un impaginato di scena e di una intima rifrangenza della retina aderente al soggetto raffigurato. Basta ricordare quanto per lui contasse la radice esistenziale del gesto pittorico che lo incitò ad incontrare i valori emblematici dell’espressionismo astratto americano, metabolizzati da una meditazione estetica da cui non era esente la persistente ‘scenotecnica barocca’ assimilata con l’aria di Roma dove l’esistenza può giungere ad esprimersi in pittura e poesia. L’idea di spazio sconfinante nel luogo più intimo della coscienza, partita dalle prove di estenuata figuratività dei primi anni Quaranta, si era venuta trasformando in ‘flusso sensibile’- così scriveva- e in ‘trasparente partecipazione alla vita’, ben oltre i confini della materia, identificandosi col gesto e con la sua parvenza, la traccia della ‘impronta’ sensibile.
La linea di vitalismo espressivo scandisce tutte le esperienze sperimentali di Toti Scialoja e ne riassume l’accento stilistico configurando una traiettoria conseguente al suo primo affacciarsi ai modi della pittura, quando fu subito chiaro che l’estetismo, con le ermetiche varianti visive, non era né poteva essere un punto di arrivo, bensì la premessa per una più esigente e lirica fusione di arte e vita. Cruccio e rovello permanente di Toti Scialoja restava l’inappagato desiderio di superare, nell’ arte e con l’arte, la distanza con il dato esistenziale per fissare ‘qualcosa che non potrà definirsi mai…trasmettere il proprio corpo, cioè la condizione unica del proprio esistere, con la azione del dipingere’. In questo corpo a corpo di un’anima poetica con i fattori originali della sua ‘volontà d’arte’ si può riconoscere e distinguere il messaggio proveniente dal frondoso albero della multiforme fantasia visiva sciorinata nel tempo da Toti Scialoja. Un albero da interrogare, sui cui meditare e tornare a riflettere, ricavando di volta in volta una preziosa testimonianza sulla sostanza conoscitiva della creazione che nutre, senza limiti, il campo della figuratività.